Makara: la città beata. Inico e Camico

MAKARA



Il territorio della bassa valle del fiume Platani, un tempo Halykos, è stato popolato fin dai tempi più remoti, perché presentava due caratteristiche fondamentali: la fertilità del suolo e la navigabilità del suo corso d’acqua, principale via di comunicazione tra la costa e l’interno dell’isola. Il fiume nasce da una sorgente in contrada Carcaci in provincia di Palermo, si unisce con il corso d’acqua di contrada Le Piane in vicinanza di Cammarata, attraversa i territori di alcuni paesi della provincia di Agrigento, si arricchisce con le acque di altri torrenti e va a sboccare a Capobianco nel mar Mediterraneo. La foce del fiume (oggi a delta) è stata per lungo tempo un importante porto naturale, di cui si sono serviti Sicani e Fenici per i loro scambi commerciali. In questo punto nevralgico nel corso dei secoli sono sorte tre diverse città: Makara (sicano-fenicia) Minoa (rodio-cretese) ed Eraclea (spartana). Nel XIII secolo a. C. sul promontorio di Capobianco esisteva un villaggio che gli storici greci chiamarono Makara (o Makkara o Malkart), la città beata. Eraclide Pontico ne attribuisce la fondazione ai Rodii e la indica come sede dell’approdo dei Cretesi di Minosse.[1] Si sconosce quale sia stato l’originale nome sicano del villaggio, essendo il predetto appellativo di chiara origine fenicia. Non possiamo far altro che accettarlo così come c’è pervenuto, secondo il mito minoico. Dopo alcuni secoli, il piccolo villaggio, ingrandito dai Fenici, si trasformò in uno dei principali empori commerciali della Trinacria e assunse un ruolo importante nel commercio di prodotti agricoli, sale e zolfo. Fenici e Sicani s’incontravano alla foce dell’Halykos e sul pianoro del promontorio di Capobianco e scambiavano i loro prodotti. Makara prosperò all’ombra delle famose città sicane: Inico e Camico, di cui probabilmente fu uno degli scali commerciali.
La mitologia ci ha tramandato che Makara, antichissimo punto d’approdo sulla foce dell’Halykos, esisteva al tempo dello sbarco di Dedalo nella terra dei Sicani. A tal proposito, Cluverio riferisce che Minosse, inseguendo Dedalo, sbarcò in Sicilia nella città chiamata Makara (conosciuta come la città dei commercianti), alla quale dopo la sua morte fu posto, in suo onore, il nome di Minoa.[2] Per raggiungere la reggia di Kokalos i Cretesi hanno avuto bisogno di appropriarsi dello scalo di Makara, stabilirvi il proprio accampamento e da lì prendere contatti con i Sicani. Una testimonianza in tal senso c’è data da Benedetto Maria Candioto:
I Cretesi, avendo raggiunto la città di Macara, toltole il nome antico, la chiamarono col nome di Minoa e col decorso del tempo fu nominata Eraclea Cretese Lilibetana.[3]
Fino ad oggi non sono state scoperte testimonianze archeologiche scientificamente certe su Makara e dai pochi cenni storici possiamo arguire che, in seguito alle lotte tra Cretesi e Sicani e alla conseguente colonizzazione, Makara lentamente scomparve e sulle sue rovine fu costruita la città di Minoa.[4] Prima della colonizzazione minoica gli abitanti di Makara praticavano la pastorizia e l’agricoltura. L'abitato faceva parte di un gruppo di piccoli villaggi, sparsi in vicinanza della foce del fiume Alykos, che costituivano la città sicana.
La colonizzazione fenicia modificò l’organizzazione sociale dei Sicani: i nuclei centrali della città furono protetti da una cinta muraria e furono avviati scambi di merci con le popolazioni delle altre città. La comunità era retta da un sovrano, la cui autorità non era mai messa in dubbio. Non c’erano leggi scritte, perché ancora non si conosceva la scrittura. Chi regnava su Makara al tempo dello sbarco dei Cretesi non c’è dato di conoscere. Si può ipotizzare che il villaggio facesse parte del regno sicano di Kokalos e, non essendo fortificato, è stato facilmente occupato. L’occupazione e la fine di Makara possono essere avvenute in due diversi momenti: secondo il mito minoico con Minosse e la sua spedizione punitiva; secondo alcuni studiosi potrebbe essere avvenuta con il tentativo della
Alleanza acragantino-lindia, tendente a prolungare sempre più verso Occidente il movimento di espansione che, iniziatosi da Gela nella seconda metà del VII secolo a. C., e sviluppatosi lungo la fascia costiera… L’alleanza acragantino-lindia, per la quale in sostanza Falaride avrebbe aiutato Pentatlo a sistemarsi a Minoa (in quel tempo ancora Makara) … si capisce pure che, conclusasi felicemente l’impresa, bisognava cambiare nome alla città sicana, la quale si sarebbe dovuta nominare evidentemente dal re-dio vendicativo.[5]
Quale che fu la verità storica, i Greci, occupate le città sicane, trovarono una civiltà meno sviluppata della loro. Modificarono il mito di Kokalos e Minosse a loro uso e consumo e cominciarono a instaurare rapporti commerciali con i Sicani. Si servirono del porto di Makara e del fiume Halycos per spingersi verso l’interno dell’isola e diedero un gran contributo alla civilizzazione del nostro territorio.


INICO E CAMICO

Le testimonianze mitologiche e storiografiche parlano di queste due antichissime città sicane, indicando Inico come la prima reggia e Camico come la fortezza imprendibile costruita a difesa del regno di Kokalos e divenuta la principale e la più nota città sicana. La loro fondazione è avvenuta tra il XVIII e il XII secolo a. C. e le vicende, di cui furono protagoniste, devono collocarsi tra i secoli XII e VI a. C., probabilmente nel periodo della massima espansione commerciale dei Cretesi. Attorno alla lotta per il predominio del commercio nel Mediterraneo è nato il mito di Minosse, re dei Cretesi, di Kokalos, re dei Sicani, e Dedalo, famoso architetto-inventore. Esso, probabilmente, è stato inventato per giustificare una guerra intrapresa per interessi economico-commerciali. Nel VI secolo a. C. i Cretesi avevano il monopolio del commercio, che si svolgeva nelle terre bagnate dal mare Mediterraneo, e davano lavoro a numerosi artigiani, che nello stesso tempo costituivano la vera ricchezza del re di Creta Minosse. Dedalo il principale artigiano ateniese, nonché inventore e architetto, per sfuggire all’ira del suo re, cui aveva arrecato grave danno uccidendo per invidia Talo, l’inventore della sega, suo discepolo e nipote in grado di oscurare la sua fama, fuggì da Atene e si rifugiò a Creta, reggia di Minosse, dove costruì il famoso labirinto. Visse per tanti anni a Creta, protetto dalla regina Pasifae. In seguito a contrasti avuti con Minosse, Dedalo fu costretto a fuggire da Creta. Trovò riparo e protezione presso il re sicano Kokalos, che lo accolse benevolmente, sperando che Dedalo avrebbe rivelato e insegnato ai Sicani i segreti del mestiere e, quindi, questi ultimi avrebbero potuto fabbricare in proprio tutti gli oggetti, che fino allora avevano comprato dai Fenici e dai Cretesi. Inoltre, Dedalo, secondo Diodoro, fu il costruttore di Camico, una città-fortezza imprendibile:
Salda più che ogni altra, da non potersi prendere con la forza; vi fece artatamente un accesso così stretto e tortuoso, da poter essere facilmente difeso da tre o quattro persone, perciò Cocalo vi stabilì la sua reggia e vi custodì le sue ricchezze.[6]
Secondo la leggenda, l’ira di Minosse nei confronti del grande architetto, era stata dettata dal fatto che Dedalo, divenuto amante della spregiudicata regina Pasifae, non abbia saputo sottrarsi ai suoi capricci amorosi e aveva costruito una mucca di legno, per permettere alla moglie del re cretese, di entrarvi e accoppiarsi con un bellissimo toro, di cui si era invaghita. In seguito, Dedalo fu rinchiuso insieme al figlio Icaro nel labirinto, da cui riuscì a fuggire con le mitiche ali di piume e cera (probabile piccola imbarcazione a vela fornitagli dalla regina Pasifae, di nascosto dal marito).  Minosse, postosi all’inseguimento di Dedalo, giunse in Sicilia, sbarcò alla foce del fiume Halykos, conquistò la città di Makara e mandò ambasciatori a Kokalos, chiedendo di riavere il fuggitivo Dedalo in suo potere. Minosse, nel tentativo di conquistare le città sicane, ebbe la peggio; a Camico perse la vita, vuoi per un inganno ordito dalle figlie del re sicano, vuoi perché la fortezza, resa inespugnabile dall’abilità di Dedalo, resistette all’assedio, fino a che Kokalos in una battaglia decisiva inflisse al re cretese un’amara e memorabile sconfitta. Il mito, invece, attribuisce all’inganno, ordito dalle figlie di Kokalos, la morte di Minosse, il cui corpo fu restituito ai Cretesi e sepolto a Makara, che da quel giorno prese il nome di Minoa.
Lo studioso Giuseppe Otto ci dà una versione leggermente diversa di quanto accaduto al re di Creta, ipotizzando che:
La fuga dell’artefice dispiacque al Minosse che non volle perdere un buon mercato; egli sbarcò colla sua flotta allo sbocco del fiume Platani (Halykos) e domandò l’estradizione del fuggitivo. Dopo un rifiuto cominciava la guerra che si tirava in lungo, perché i pacifici Sicani non accettarono una battaglia in aperta campagna, ma si ritirarono nelle loro montagne. La leggenda parla di un assedio di cinque anni (Erodoto VII, 170) che pare esagerato. Comunque il Minosse perdette la sua vita e fu sepolto presso Agrigento, il centro dell’influsso cretese. Il suo monumento sepolcrale sussiste ancora nella parte più arcaica del cosiddetto santuario rupestre della Demetra. [7]
Le testimonianze storiche sono concordi nell’affermare che, dopo la sconfitta, alcuni superstiti cretesi si stabilirono sulla foce dell’Halykos, dove fondarono una colonia chiamata Minoa in onore di Minosse, altri emigrarono verso l’interno della Sicilia e fondarono Engio, l’odierna Gangi. Secondo la tradizione storica:
Minosse è morto circa nell’anno 1170 a. C. . Se la morte di Minosse è avvenuta in Camico, bisogna pensare a tale città come già fondata intorno al XII secolo a. C. Inoltre, doveva essere questo un periodo di floridezza per la nostra città sicana dal momento che essa, oltre ad essere munitissima, era anche capace di respingere l’assedio dei Cretesi.[8]
Dove si trovavano Inico, Camico e il leggendario tesoro di Kokalos? Per rispondere a questa domanda bisogna tenere presente che la Camico del mito, potrebbe non corrispondere alla Camico realmente esistita e conquistata dai Romani. I primi colonizzatori greci, a volte, attribuivano lo stesso nome a diversi insediamenti abitativi che avevano caratteristiche simili, com’è il caso, ad esempio, d’Eraclea (nella Magna Grecia n’esistevano tante). Per quanto riguarda Inico, gli storici Erodoto, Diodoro e Stefano Binzantino ci hanno lasciato alcuni cenni, relativi rispettivamente alle guerre di Gela contro Zancle e Selinunte contro Segesta. Diodoro afferma che la città sicana chiamata Inico si trovava in vicinanza dell’Alykos ed è stata saccheggiata dal generale ateniese Nicia durante la guerra tra Selinunte e Segesta (415 a. C.). Da questo dato alcuni storici hanno dedotto che la città si trovava sulla collina Montesara, territorio di Ribera. Stefano Bizantino, a proposito di Inico, loda la bontà del vino inictino[9]. Da questo particolare è stato tratto spunto per localizzare la città nelle località conosciute per la produzione di questo tipo di vino, come, ad esempio, Menfi.  Questi pochi elementi non ci consentono di azzardare alcuna ipotesi sul sito d’Inico, tranne quella che la città doveva fare capo e comprendere tutti i villaggi sparsi nel territorio vicino all’Alykos, compreso tra Selinunte e Acragante e non molto distante da Makara, il cui approdo era considerato la principale via di penetrazione verso l’interno dell’isola.
Solitamente, una città sicana comprendeva un vasto territorio, su cui insistevano piccoli villaggi e fortezze collinari. Per quanto riguarda Camico, svariate ipotesi sono state formulate dagli storici, i quali hanno creduto d’individuare il fiume Kamikos, cui è stata legata la mitica città, divenuta la nuova e più sicura reggia di Cocalo, nei territori di Sciacca, Caltabellotta (Verdura), Ribera, Siculiana (Canne), Cattolica Eraclea, Sant’Angelo Muxaro (Platani), Sutera, Naro etc. Una delle ipotesi identifica il Kamikos con il fiume Verdura e, in questo caso, la fortezza imprendile di Camico deve essere ricercata, secondo J. Schubring, nel territorio di Caltabellotta. La predetta tesi è stata sposata da Luciano Rizzuti, il quale ha indagato a fondo per individuare il fiume nelle vicinanze del quale è stata costruita l’imprendibile fortezza sicana, concludendo che:
 Non fu il fiume a dare il nome alla città, come afferma Vibio Sequestre, ma viceversa… Camico (sicano), Triokala (greco-romano) e Caltabellotta (arabo) [10]
sono i nomi dati nel corso dei secoli alla stessa città fortificata.
Altri studiosi hanno messo in dubbio quest’identificazione, poiché il Verdura, a loro parere, non corrispondeva al fiume Kamikos. Secondo gli storici più antichi le città di Camico e Acragante erano separate da un solo fiume, mentre tra Caltabellotta e Agrigento scorrevano quattro fiumi Canne, Platani, Magazzolo e Verdura.    
Un’altra ipotesi avanzata è quella che il nome sicano del fiume Kamykos (parte iniziale e media) è da identificare nel greco Halykos (parte finale), corrispondente all’odierno Platani. Questo fatto spiegherebbe il perché dello sbarco cretese alla foce del fiume. Sulla riva sinistra del Platani si trovano due colline: Giudecca e Monte Castello, dove sono sorte due delle principali città-fortezze sicane. 
Giovanni Caruselli, dopo un’approfondita indagine, concluse che il Kamikos fosse l’odierno fiume Canne nel territorio di Siculiana e che la città di Camico conquistata dai Romani, di cui si hanno notizie certe, fosse da ricercare su un promontorio, sito nella fascia di territorio agrigentino:
Nel breve tratto che dal fiume Platani corre al Canne ci fu la inespugnabile Camico, le cui memorie si riportano pure fino al sesto secolo dopo Cristo, mentre nel nono secolo e nella stessa regione si affaccia l’inespugnabile Platani. [11]
Più che individuare il fiume Camico si dovrebbe andare alla ricerca del territorio chiamato Camico. Secondo Giuseppe Picone:
Dedalo costrusse nell’agro acragantino, appellato Camico, una città  fortissima… presso Acragante, e di questa divenne poi uno dei castelli.  [12]
Da Strabone apprendiamo che dopo la conquista romana di Acragante, Camico era spopolata e isolata, perciò i Romani ritennero opportuno accattivarsi l’amicizia dei pochi contadini e pastori del luogo, distribuendo loro le terre.[13] Da ciò si deduce che Camico si trovava in una zona isolata, lontana dal mare e dalle principali vie di comunicazione dell’agro acragantino, tanto da essere considerata poco interessante per le vicende belliche e per il commercio. Probabilmente una zona montagnosa adibita principalmente a pascolo, vicino a un fiume (Canne, che divide in due parti il territorio di Acragante), nella zona compresa tra Agrigento e il Platani, che in certi momenti storici fu il suo confine naturale. In essa si trovano i seguenti siti che testimoniano antichi insediamenti umani: Monte Giafaglione, San Giorgio-Branda, Punta di Disi o Capodisi, Monforte, Giudecca, Monte Castello. Particolarmente interessanti sono San Giorgio-Branda, la Giudecca e Monte Castello.    Nella prima località, facente parte del territorio acragantino, insistono due necropoli, violate da molto tempo, in uso dal periodo miceneo-sicano a quello bizantino. L’odierna collina della Giudecca possiede le caratteristiche orografiche e morfologiche descritte dagli storici ed è stata sede di un’antica fortezza, come testimoniano le passate e recenti indagini archeologiche. Sul pianoro di detta collina Giovanni Caruselli ha ipotizzato l’esistenza delle fortezze di Camico e Platano.
Continuando a risalire il corso del Platani s’incontrano le colline di Sant’angelo Muxaro, tra cui monte Castello. Questa località, oltre ad avere le caratteristiche predette, è ricca di testimonianze archeologiche arcaiche e medioevali:
Vi è un’altura, detta significativamente Monte Castello, vera e propria fortezza naturale, che costituisce l’epicentro della civiltà indigena cui si accennava.  Alla sommità si apprezzano i resti delle mura di cinta e di difesa della rocca Qal àt al-Musàri’àh, così chiamata dalla tribù berbera che la conquistò togliendola ai bizantini e che in seguito, fu conosciuta come Mussarum.[14]
Di Camico sappiamo che era una fortezza imprendibile, posta su un’altura, raggiungibile da un solo angusto passaggio, facilmente difendibile da pochi soldati. Queste sono le caratteristiche di tante fortezze e, particolarmente, sono proprie dei siti della Giudecca e di Monte Castello. Esaminando la parola Camico, probabilmente derivante da Cam – in – Inico, Otto Giuseppe ha ipotizzato che potesse significare fortezza di Inico, l’antica reggia di Kokalos, che, come tutte le arcaiche città sicane, non era fortificata e comprendeva alcuni villaggi del territorio Volendo azzardare un’ipotesi, considerando che per città i Sicani intendevano un certo numero di villaggi o casali vicini, probabilmente le roccaforti, che proteggevano Inico, contribuivano a formare la città di Camico, la nuova reggia del regno sicano, che insisteva su un territorio chiamato “al Camico”. Inoltre, anche il fiume (l’odierno Canne o una parte del Platani) che scorreva in quelle terre, probabilmente, ne aveva preso il nome e non viceversa.  Pertanto chi cerca di localizzare questa città, tenendo conto delle poche notizie storiche, non suffragate da ritrovamenti archeologici e testimonianze d’indubbio valore, è facilmente indotto in errore.
A testimoniare la presenza di un’importante città sicano-micenea (Camico o Inico) ci sono le tombe a tholos scoperte a Sant’Angelo Muxaro, località, un po’ distante da Minoa, dove con molta probabilità Kokalos aveva una delle sue sedi principali. Importanti studiosi e archeologici, come Pietro Griffo ed Ernesto De Miro, ritengono ormai certa quest’identificazione.
Riportiamo quello che Ignazio Alessi ha scritto in proposito:
In tempi lontanissimi un potente regno sicano dominava la valle del fiume Platani (in quei tempi Halykos, successivamente Halicus, Iblatanu e infine Platani) e controllava i commerci e il transito di una delle più importanti vie di penetrazione dal mare Mediterraneo verso l’interno e verso la costa Nord della Sicilia. [15]
Con le ricerche effettuate nella necropoli sicana di Sant’Angelo Muxaro sono stati trovati:
Vasi… di produzione locale o indigeni… interessanti perché caratterizzano una cultura e uno stile: la cultura e lo stile di Sant’Angelo Muxaro. È appena il caso di ricordare fra essi: le eleganti brocche a corpo ovoidale con bocca tribolata di colore rosso o rossiccio, spesso decorate sobriamente nella parte bassa del collo con motivi incisi a zig zag o stampigliati a quadratini, triangoletti o a scacchiera. [16]
In base alla necropoli scoperta, al materiale archeologico e agli ori rinvenuti, si è ipotizzato che Camico, la reggia fortificata si trovasse nel territorio dell’odierna cittadina di Sant’Angelo Muxaro, precisamente su Monte Castello, località conosciuta come il padre delle rupi dei monti (nella lingua accadica Kamu Kasu).[17] Di certo, si sa che i Sicani furono considerati tra i primi abitanti della Sicilia e dominarono una delle principali vie d’accesso verso l’interno della nostra isola. Parallelamente al fiume Halykos (oggi Platani) esisteva un’antica strada poderale che, partendo da Sotir giungeva a Mushar e proseguiva per Platano. Da Platano si dirigeva verso Girgenti passando per Cattà[18], che si trovava nelle vicinanze di Raffadali e della contrada San Giorgio-Branda. I villaggi sicani fortificati, sorti sui promontori adiacenti al fiume Halykos (Montesara, Mongiovì, Collerotondo, Giudecca, Millaga, Monte Castello, ecc.), avevano lo scopo di proteggere la reggia di Kokalos e dare un rifugio sicuro ai pastori e a chi coltivava le terre delle vallate sottostanti. Inoltre, dalle predette fortezze riuscivano a controllare il traffico delle merci e dei prodotti agricoli e minerali di vitale importanza per quei tempi.
Esaminiamo brevemente le altre testimonianze storico-letterarie che accennano all’esistenza di Camico. Da Erodoto apprendiamo che nell’anno 477 a. C. i due nipoti del tiranno di Acragante Terone: Ippocrate e Capi, accusati di sedizione, trovarono rifugio a Imera. Essendo stati sconfitti in battaglia, nella guerra tra Acragante e Imera, si rifugiarono a Camico.
Nell’anno 450 a. C. Camico era abitata dagli acragantini, faceva parte del territorio di Acragante e, infine, nel terzo secolo a. C., come afferma Diodoro, la fortezza di Camico era ridotta a semplice castello.[19]
Durante la prima guerra punica, i Romani presero Agrigento (262 a. C.) e dopo altre città tra cui Camerina, Erbesso, Enna, etc. mossero “epi Kàmikon… phrourion "Akragantinon” che presero per corruzione e poi fu da questi lasciata decadere. Da Strabone sappiamo che “i Romani occupata Camico, conosciuta la solitudine del luogo, distribuirono pascoli e terre ai pastori ed ai bifolchi che abitavano lì presso, onde averli al proprio partito.” Il nome della rocca di Camico andò perduto, sicché al tempo di Posidonio (I secolo a. C.) fonte di Strabone (VI, 2, 6) era, come Gela, Imera, Callipoli, Selinunte ed Eubea, abitata soltanto da pastori. Una volta, quando il fiume Platani era ancora navigabile, Camico serviva come barriera insuperabile contro le navi nemiche, dappoi controllava come fortezza fortissima un punto nevralgico della frontiera akragantina-punica, perché qui la linea di demarcazione abbandonava il fiume Platani e seguiva il corso del fiume Jazzo Vecchio formando così un angolo retto. È chiaro, che i Greci distaccarono qui un presidio per osservare da vicino un paese pressoché sempre ostile ed eressero là un tempietto dedicato all’Athena come dea tutelare. Ma per i Romani, occupata tutta la Sicilia, questa frontiera “calda” non esisteva più, il valore strategico della fortezza era quindi finito. Situata distante da frequentissime strade principali la fortezza di Camico era per loro un luogo deserto, senza importanza, e la lasciarono decadere. Camico situata tra monti poco fertili, lungo i sei secoli di pace trascorsi sotto il dominio romano, ebbe a perdere quella importanza che non perdette mai quando un pericolo di guerra minacciava la pace di questi popoli. Pure Vibio, vissuto secondo Oberlin dal V al VI sec. d. C., ci parla di Camico come di città abitata al suo tempo, fatto confermato per altro dalle diverse monete romane lì rinvenute. Qui è il posto da rimandare alla villa romana già descritta.[20]
Da Giuseppe Otto, ricercatore austriaco, noi apprendiamo che sull’odierna collina della Giudecca:
 Il neolitico (ca. 3.000 – ca. 1.800 a. C.) è bene rappresentato, ma mancano totalmente i due primi periodi dell’età del bronzo (Malpasso e Castelluccio). Comunque questo fatto non è strano perché in questi due periodi i Sicani vivevano pacificamente in paesi più ameni senza paura d’incursioni nemiche, che più tardi, nel terzo periodo dell’età del bronzo (Thapsos, ca. 1350 – 900 a. C.) li cacciarono in luoghi di difficile accesso. Così si trovano sulla Giudecca cocci della cultura di Thapsos ed anche qualche resto di fibbie ad arco semplice caratteristiche di questo periodo… Inico e Camico, regge di uno stesso modesto principato, vanno quindi ricercate a pochi chilometri una dall’altra, ed in posizione l’una forte, l’altra fortissima. Lo stesso nome di Camico è derivato dalla contrazione di “Cam(in)ico”, designerebbe la nuova reggia come “fortezza di Inico”. Per la toponomastica, infatti “Car”, “qal”, “Kal”, “gal”, e, nel mondo balcanico “Cam” costituiscono uno dei più sicuri ed estesi radicali, con significato di “pietra” e, quindi, anche di “fortezza.[21]
A questo punto s’impone un chiarimento per evitare di continuare a creare confusione. La Camico del mito minoico, che nel corso dei secoli ha subito varie manipolazioni da parte delle popolazioni dominanti, probabilmente è frutto della fantasia e, avendo le caratteristiche delle fortezze imprendibili, è stata identificata in quasi tutti i siti fortificati del territorio acragantino. A nostro avviso, la Camico, citata dagli storici (da non identificare con la Camico del mito), ancora esistente al tempo dell’occupazione romana e di cui si sono perse le tracce, era una delle fortezze che presidiavano il territorio chiamato al Camico, che si trovava nella zona circoscritta dagli attuali Comuni di Agrigento, Siculiana, Cattolica Eraclea, Sant’Angelo Muxaro e Raffadali.
In conclusione, per quanto riguarda il nostro territorio, possiamo affermare che ci sono sufficienti testimonianze storico-letterarie per ipotizzare l’esistenza di fortezze sicane sulle colline bagnate dall’ultimo tratto dell’Halykos e principalmente su Montesara, Collerotondo e sulla Giudecca. In sintonia con quanto affermato da Giovanni Caruselli prima e da Giuseppe Otto poi, noi ipotizziamo che una delle fortezze sicane è sorta sul monte della Giudecca a difesa della reggia di Kokalos. Dubitiamo che si trattasse della mitica Camico, per mancanza di reperti archeologici certi del periodo sicano-miceneo, che, invece, sono stati trovati in contrada San Giorgio-Branda e a Monte Castello, il promontorio fortificato, che s’incontra subito dopo la Giudecca, in territorio di Sant’Angelo Muxaro.
L’esistenza di una civiltà sicana sulla nostra isola è presente:
Nella coscienza della storiografia greca del V secolo a. C. (di Antioco in particolare) v’era la consapevolezza di un regno sicano, che aveva avuto la sua espressione nel nome di un re, Kokalos, e di una città, Kamikos: un territorio e una cultura che lo rendevano degno di dare inizio alla “Sikeliotis Syngraphé”, alla storia greca della Sicilia. E questa consapevolezza non rispondeva solo a una situazione contemporanea del V secolo, se secondo Diodoro (fonte Timeo) il sofista Ippia insegnò largamente nella città sicana di Inico, che la tradizione letteraria (Paus. VII, 4, 6) collegava con Kokalos, come sede precedente a Kamikos.[22]
Per concludere, allo stato attuale, si possono formulare solo ipotesi. Per avere certezze sull’individuazione dei siti di Inico e Camico, necessiterebbero delle serie campagne di ricerche archeologiche, da svolgere lungo la direttiva che da Eraclea Minoa (sbarco dei Cretesi, unica individuazione certa) conduce a Sant’Angelo Muxaro, principale sede della civiltà minoica.  





















[1] Cfr. E. Pais, Storia della Sicilia e della Magna Grecia, 106; L. Rizzuti, Camico, 22.
[2] Cfr. Diodoro, IV, 79.
[3] B. M. Candioto, De’ saggi storici, 138.
[4] Cfr. V. Amico, Dizionario Topografico della Sicilia, tradotto e annotato da G. Di Marzo.
[5] F. P. Rizzo, Akragas e la fondazione di Minoa, 137-138.
[6] Diodoro, IV, 79.
[7] G. Otto, Cattolica Eraclea ed i suoi dintorni, 5.
[8] A. Scaglia, Una nota su Camico, 40-41.
[9] Cfr. G. Spoto, Cattolica Eraclea ed il suo territorio, 37.
[10] L. Rizzuti, Camico, 58.
[11] G. Caruselli, Sulla storia della Sicilia antica, osservazioni e ricerche, 57.
[12] G. Picone, Memorie storiche agrigentine, 32-34.
[13] Cfr. Strabone, Lib. VI.
[14] I. Alessi, Mushar,  Il padre della rupe dei monti, 11.
[15]  I. Alessi, Nel regno sicano di Kokalos, Sant’Angelo Muxaro, Natura, archeologia, storia, 5.
[16]  Ibidem, 10.
[17]  Cfr. I. Alessi, Mushar, Il padre delle rupi dei monti, 11.
[18] Non ci sono riscontri certi su dove si trovasse al Qattà, indicata dagli studiosi a Canicattì e nell’ex feudo Cattà, di proprietà della mensa vescovile, vicino a Raffadali e al feudo Capodisi. Nei Riveli del 1616 relativi ai primi abitanti di Cattolica si dice che: Lo Iacono Vincenzo, possedeva un mulino ad acqua nel territorio e principato di Girgenti “feudo Cattà”.
[19] Cfr. P. Fiorentino, Siculiana racconta.
[20] G. Otto, Cattolica Eraclea e i suoi dintorni, 10-11.
[21] Ibidem., 3-4.
[22] E. De Miro, Sant’Angelo Muxaro - Aspetti di una problematica, 132.

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